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Il Rinascimento
Sebastiano Pissini (1580-1655), patrizio e medico
lucchese, nella sua monografia “De Diabete
Dissertatio” seguì la tradizione di Galeno e, come
tutti i suoi colleghi contemporanei, infieriva sui
disgraziati pazienti diabetici con ogni sorta di rimedi:
salassi, purganti, vomitivi, astringenti
(“Somministriamo ai diabetici ghiande, castagne,
corteccia del sughero”), mucillagini, lenitivi (cannella,
manna, tamarindo, liquirizia, corteccia di sambuco, foglie di ginestra,
giaggiolo, cavolo marino), vini generosi (ottimi quelli del Reno), bagni e
terme. Rimedio sovrano, anche per i due secoli successivi, l’oppio.
Gli esiti erano purtroppo infausti:
“Vannella Moriconi, donna molto avveduta e nobilissima, avendo a
lungo sofferto di diabete ed essendo tormentata da una feroce bramosia
di bere, mancandole infine le forze ma comunque senza febbre,
anch’essa morì quasi senza avvedersene”.
“Domitilla Arnolfini, giovinetta nobilissima, per quanto chiudesse la sua
vita con febbre elevata, per parecchi mesi prima del rigoglio della sua
vita, che era stata solita condurre in salute, non poté evitare di morire di
diabete”.
Il chivassese Francesco Arma (1550), medico del duca Emanuele
Filiberto, vantò il suo successo su “Domino Joanne Maria de Contino”
dopo ”septem grana” di pepe. Ambroise Paré (1510-1590), Pareto,
chirurgo di quattro re di Francia, scrisse che il diabete è spesso
preceduto da un “trop grand travail immodéré”: lo stress moderno?
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